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A metà strada tra la pittura e le tavole scientifiche per catalogare l’intera specie scimmiesca l’ossessione di Sergio Sergi nasconde un disinganno rispetto al genere umano. Apprezzare la differenza di espressione tra il ritratto di un abate del Settecento e il Cebo cappuccino, l’espressione di Michael Jackson dopo la trasformazione da nero a bianco rispetto a quella del Rinopiteco bruno. Riflessione, malinconia, stupore, alterigia e malizia riflettono i volti di queste scimmie oltre i quali c’è il nostro volto. Sergi trova nelle scimmie quello che non trova più negli uomini. Analizza la varietà del genere scimmiesco più di quanto non lo faccia con la varietà del genere umano che ha conquistato le città, le ha costruite, le ha abitate. Le scimmie abitano ancora la natura e non hanno bisogno di trasformarla. A cosa serviranno tanti animali nel nostro mondo?
Sergi intende anche, attraverso l’umanità dei volti, marcare la sostanziale corrispondenza con gli esseri umani se non avessero avuto la ventura e l’intelligenza di costruire la civiltà. Il mondo deriva dalla fine delle scimmie. Sergi vede nelle scimmie l’uomo al limitare della storia, prima di qualunque storia, lontano da conflitti e scontri. Se l’uomo fosse rimasto scimmia non avremmo i monumenti, non avremmo le città e non avremmo neanche distrutto i Buddha di Mamian. Non saremmo saliti al cielo e caduti nell’inferno. Guardare la vita delle scimmie, osservarne i diversi tipi e caratteri, significa comprendere il mondo prima dell’arrivo dell’uomo. Un mondo migliore, che l’intelligenza e la sensibilità hanno peggiorato.
Vittorio Sgarbi
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1 commento:
Ma ke belle!
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